Il tema della concorrenza dei propri dipendenti/collaboratori è sempre oggetto di grande attenzione da parte dei datori di lavoro. È importante, infatti, tutelarsi da un’eventuale attività concorrenziale da parte del dipendente, ex dipendente, collaboratore, ex collaboratore, comprendendo a pieno tutte le forme delle tutele applicabili nei confronti di lavoratori dipendenti, autonomi, parasubordinati.

Per ciò che riguarda i rapporti di lavoro subordinato, in capo al lavoratore ricade il cd “dovere di fedeltà” disciplinato dall’art. 2105 del codice civile, secondo cui: “Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”. Tale norma ha un’ampia portata.

La giurisprudenza ha più volte ribadito che “l’obbligo di fedeltà del lavoratore subordinato ha un contenuto più ampio di quello risultante dal testo dell’art. 2105 c.c., ed impone al lavoratore di tenere un comportamento leale nei confronti del proprio datore di lavoro, astenendosi da qualsiasi atto idoneo a nuocergli anche solo potenzialmente.” (Cass. civ. Sez. lavoro, 19/01/2018, n. 1374).
Pertanto, al dipendente è vietato categoricamente – in pendenza del rapporto di lavoro – divulgare informazioni riservate ovvero porsi in una posizione concorrenziale.

Cosa accade quando, però, si giunge al termine di un rapporto lavorativo – avvenga questo per dimissioni, licenziamento o scadenza del termine previsto dagli accordi – e un lavoratore è libero di trovarsi una nuova occupazione anche presso aziende competitor?
Cambiando azienda, il lavoratore inevitabilmente, porterà con sé, all’interno della sua nuova realtà lavorativa, il know how che ha acquisito, nonché conoscenze ed esperienze maturate all’interno della precedente realtà.

Come è possibile, per il precedente datore di lavoro, tutelarsi di fronte a tale circostanza?

La soluzione più conveniente è quella di stipulare, coi propri dipendenti, collaboratori autonomi e/o parasubordinati, un patto di non concorrenza.

Cosa è il “patto di non concorrenza”?

Il patto di non concorrenza è un contratto a prestazioni corrispettive, a titolo oneroso per il quale occorre l’interesse di entrambe le parti, il cui scopo è proprio quello di regolamentare diritti, doveri e obblighi che ricadono in capo al lavoratore nel periodo successivo alla cessazione del rapporto. Ciò, proprio per evitare che l’ex lavoratore passi a lavorare da un diretto competitor, divulgando le informazioni apprese durante il rapporto di lavoro o svolga attività concorrenziale, una volta cessato il rapporto. Può essere stipulato con qualsiasi lavoratore e per qualsiasi attività che possa essere oggetto di concorrenza con competitor…ma bisogna prestare attenzione. Per non cadere in errore, è bene conoscere le caratteristiche richieste dalla legge per la validità di tale accordo.

Il patto di non concorrenza per i lavoratori dipendenti

Il “lavoratore dipendente” è, per definizione, chi svolge il proprio lavoro, intellettuale o manuale, alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore, il quale in cambio gli eroga una retribuzione.

L’art 2125 del codice civile, nel dettare le regole per la redazione di un patto di non concorrenza riferito ai lavoratori dipendenti prevede che: “Il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo. La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata”.

Da ciò, consegue inevitabilmente che se un’azienda intende stipulare un patto di non concorrenza con un proprio dipendente, tale patto deve avere delle caratteristiche precise e tassative.

Precisamente

  • deve essere in forma scritta, a pena di nullità;

  • deve avere un limite di durata; in caso di maggiore durata, quest’ultima viene automaticamente ridotta al limite previsto dalla legge;

  • deve indicare una limitazione geografica, a pena di nullità;

  • deve prevedere un corrispettivo a favore del lavoratore, a pena di nullità.

I vincoli appena sopra elencati debbono infatti essere considerati alla luce del principio che prevede che un patto di non concorrenza sia nullo qualora imponga restrizioni o limiti tali da limitare fortemente la concreta professionalità del lavoratore sino a comprometterne ogni potenzialità reddituale, anche alla luce della reale situazione di lavoro in essere.

Naturalmente, le valutazioni sull’effettiva validità di un patto di non concorrenza debbono essere effettuate caso per caso, e la giurisprudenza di merito si è espressa a più riprese in merito a tali tematiche. Per fare alcuni esempi: è stato giudicato non congruo un corrispettivo mensile pari al 3% della retribuzione, pagato per dieci mesi nel corso del rapporto, a fronte di un patto che inibiva al lavoratore lo svolgimento in concorrenza con la datrice di lavoro di qualsiasi attività lavorativa, in forma autonoma o subordinata, nel continente europeo per i ventiquattro mesi successivi alla cessazione del rapporto, e dunque, il patto di non concorrenza è stato dichiarato nullo (Trib. Milano, sez. lav., sentenza 28 settembre 2010).
Al contrario, è stato ritenuto congruo un corrispettivo pari a circa il 10% della retribuzione, a fronte di un patto con cui veniva proibito al lavoratore di svolgere mansioni di “venditore nell’ambito della grande distribuzione” presso aziende concorrenti sul territorio nazionale e per il periodo di due anni, e, dunque, il patto di non concorrenza è stato dichiarato valido (Cass., sez. lav., n. 7835/2006).
In ogni caso, è bene ricordare che richiedere la nullità del patto di non concorrenza non risulta senza oneri in capo al lavoratore. Difatti, dall’eventuale nullità, discende l’obbligo per il lavoratore di restituire, qualora richiesto, il compenso che fosse già stato anche parzialmente erogato, in quanto ormai privo di causa.

Il patto di non concorrenza per i lavoratori autonomi

Il lavoratore autonomo è una figura professionale che, pur collaborando più o meno stabilmente con un’azienda, progetta, organizza e realizza in autonomia il proprio lavoro.

La natura diversa del rapporto collaborativo si riflette anche nella disciplina del patto di non concorrenza tra le aziende e tali figure. Infatti, la disciplina patto di non concorrenza del lavoratore autonomo è contenuta all’interno dell’art. 2596 c.c. il quale prevede requisiti significativamente diversi – e meno rigorosi – rispetto a quelli richiesti per la validità del patto tra azienda e lavoratore dipendente: “Il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto. Esso è valido se circoscritto ad una determinata zona o ad una determinata attività, e non può eccedere la durata di cinque anni. Se la durata del patto non è determinata o è stabilita per un periodo superiore a cinque anni, il patto è valido per la durata di un quinquennio”.

Da ciò discende che:

  • La forma scritta anche in tale caso è richiesta, ma solo per finalità probatorie: ciò significa che il patto è valido anche se non è messo per iscritto – a differenza di quello del dipendente che, se stipulato solo oralmente, è del tutto nullo;

  • Anche il patto del lavoratore autonomo deve essere circoscritto a una determinata zona o a una determinata attività lavorativa, al pari di quello del lavoratore dipendente;

  • La durata massima del patto del lavoratore autonomo è cinque anni. Così come avviene per il dipendente, anche per il lavoratore autonomo, se la durata del patto non è determinata oppure è superiore a cinque anni, il patto si considera valido solo per la durata di un quinquennio.

  • Per quello che riguarda il compenso, per lavoratore autonomo la legge nulla dice in materia di compenso: da tale mancanza la dottrina e la giurisprudenza deducono che il patto di non concorrenza del lavoratore autonomo – a differenza di quello del lavoratore dipendente – sia valido anche se non prevede un corrispettivo del lavoratore a fronte del sacrificio richiesto.

…e per i lavoratori parasubordinati?

Per lavoro parasubordinato si intendono quei rapporti di collaborazione svolti in modo continuativo nel tempo, coordinati con la struttura organizzativa del datore di lavoro committente, in modo prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione.

Orbene, Giurisprudenza ha ritenuto che per quanto riguarda i rapporti “parasubordinati”, il divieto contrattuale di concorrenza per il periodo successivo alla cessazione non è riconducibile all’art. 2125 c.c. ma rientra nella previsione dell’art. 2596 c.c. (Cass. n. 7141/2013), assimilandoli integralmente, riguardo tale tema, ai lavoratori
autonomi.

E se il patto di non concorrenza viene violato da una delle parti?

Qui, bisogna inevitabilmente analizzare, di caso in caso, quale parte ha commesso tale violazione. Infatti, se a violare il patto di non concorrenza sottoscritto è il datore di lavoro, il collaboratore e/o dipendente potrà agire giudizialmente al fine di ottenere la risoluzione di tale patto, nonché il corrispettivo dovuto e il risarcimento dei danni patiti. Invero, se è il lavoratore a violare il patto, il datore di lavoro potrà chiedere la restituzione del quantum già erogato nonché, eventualmente, il risarcimento degli ulteriori danni patiti.

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